Chernobyl, venti anni dopo

La verità scientifica sulle reali conseguenze del disastro di Chernobyl.

Lo studio più significativo pubblicato fino al 2000 sulle conseguenze del disastro è il rapporto UNSCEAR 2000, presentato all’Assemblea generale dell’ONU. Il rapporto, che forniva un quadro complessivo realistico delle conseguenze sanitarie confutando le tesi più pessimistiche, fu contestato dalle autorità ucraine perché conteneva “valutazioni diverse rispetto a quanto pubblicato dalla stampa popolare” (come se la "stampa popolare" dovesse essere una fonte di riferimento per un lavoro scientifico) e perché “non teneva conto di alcuni pareri espressi da scienziati dei tre paesi colpiti” (come se il sistema scientifico dovesse esprimere "pareri", anziché informazioni fondate su risultanze concrete e validate) .

Per rispondere alle contestazioni, nel 2001 fu costituito sotto l'egida dell'ONU il Chernobyl Forum, al quale partecipano direttamente i governi di Russia, Bielorussia e Ucraina insieme a otto agenzie dell’ONU: l’Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica (IAEA), l’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO), l’United Nations Development Programme (UNDP), la Food and Agriculture Organization (FAO), l’United Nations Environment Programme (UNEP), l’United Nations Office for the Coordination of Humanitarian Affairs (UNOCHA), l’United Nations Scientific Committee on the Effects of Atomic Radiation (UNSCEAR) e la Banca Mondiale.

Il rapporto del Chernobyl Forum confermò le risultanze dello studio UNSCEAR 2000. A vent’anni dal disastro, le sue conseguenze sanitarie possono essere riassunte come segue.

  • Nella notte dell’incidente si verificò il decesso di tre operatori dell’impianto, che furono investiti direttamente dall’esplosione. Due morirono immediatamente, uno per i traumi subiti nell’esplosione e uno per infarto. Un terzo operatore morì nello stesso giorno dell’incidente in conseguenza dei traumi e delle ustioni riportate.

  • Nella notte dell’incidente intervennero sull’impianto circa 1.000 operatori (400 interni e 600 esterni all’impianto) nelle operazioni di emergenza. Fra questi, 237 operatori furono ricoverati in ospedale e a 134 di essi fu diagnosticata la sindrome acuta da radiazione. In questo gruppo di 134 persone, 28 persero la vita nei quattro mesi successivi all’incidente. Dal 1987 ad oggi si sono verificati in questo gruppo altri 19 decessi certamente attribuibili all’esposizione alle radiazioni.

  • Dal 1986 al 2006, 600.000 persone hanno ricevuto speciali certificazioni che li qualificano come liquidatori in base alle leggi promulgate in Ucraina, Bielorussia e Federazione Russa. Di questi 240.000 (che prestavano servizio come militari al momento dell’intervento) si occuparono direttamente della decontaminazione dell’impianto, dell’area circostante l’impianto e delle strade, nonché della costruzione del sarcofago e dei depositi temporanei per i materiali radioattivi. Anche se le valutazioni radioprotezionistiche condotte sulla base della dose collettiva inducono a prevedere per questo gruppo un incremento di incidenza delle patologie radioindotte (2.200 casi stimati), non è stato finora rilevato alcun effetto correlabile con l’esposizione alle radiazioni.

  • La superficie complessiva contaminata dagli effetti dell’esplosione è di 150.000 kmq, con una popolazione residente di 5 milioni di persone. La popolazione tuttora residente nelle aree definite “ad alta contaminazione” è stimabile in circa 100.000 persone. Fatta eccezione per il tumore alla tiroide negli individui che avevano meno di 18 anni al momento del disastro (vedi punto successivo), valutazioni epidemiologiche inducono a stimare in circa 5.000 i casi di decesso per leucemia o tumore potenzialmente associati all’esposizione. I suddetti casi sarebbero comunque mascherati dall’incidenza naturale.

  • Fra il 1986 e il 2005 sono stati registrati circa 4.000 casi di tumore alla tiroide fra gli individui esposti che avevano meno di 18 anni all’epoca dell’incidente. La patologia ha avuto esito letale in 9 casi. L’incremento nel numero assoluto di casi sembra essersi livellato nel periodo 1995-2000. Del resto, gli studi condotti fra i sopravvissuti al bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki mostrano che il maggior rischio di tumore alla tiroide riguarda i soggetti esposti prima dei 10 anni di età e si presenta fra i 15 e i 29 anni dopo l’esposizione.

Per quanto riguarda le evidenze epidemiologiche, gli studi evidenziano quanto segue.

  • Leucemia. Non si sono rilevati incrementi correlabili con l’esposizione alle radiazioni. L’incidenza della leucemia era in crescita nell’ex URSS anche prima dell’incidente di Chernobyl (forse per il miglioramento dei metodi diagnostici, ma non si escludono altre cause). Il breve periodo di latenza tipico di questa patologia (2-3 anni dopo l’esposizione) induce a ritenere che l’eventuale effetto dell’incidente di Chernobyl sia ormai interamente esaurito.

  • Tumori solidi diversi dal tumore alla tiroide. Anche se le valutazioni epidemiologiche condotte sulla base della dose collettiva inducono a prevedere un incremento dell’incidenza, non è stato finora rilevato alcun incremento correlabile con l’esposizione alle radiazioni. Il periodo di latenza associato a queste patologie (10 anni) induce a ritenere che l’eventuale effetto dell’incidente di Chernobyl sia ormai interamente esaurito.

  • Sindromi neonatali ed effetti genetici. Non si sono rilevati casi di aborto spontaneo, mortalità in utero, nascita prematura, malformazione neonatale e sindrome di Down correlabili con l’esposizione alle radiazioni.

Sulla base delle suddette risultanze, il bilancio complessivo del disastro di Chernobyl è di 59 morti, ben diverso da quello propagandato dalle fonti ideologicamente schierate e scientificamente non qualificate.


Ugo Spezia
CHERNOBYL
20 anni dopo il disastro

Con il patrocinio dell'Associazione Galileo 2001, per la libertà e la dignità della Scienza
Edizioni 21mo Secolo, 2006